Il Belgio cm la Repubblica Cecoslovacca ?

8 09 2010

Tratto da un articolo da IlSole24ore.com ecco un’altra situazione europea ke si va configurando nel tempo cm una probabile scissione del territorio belga in 2 nuove entità nazionali e 2 futuri nuovi stati europei. Sembra di rivivere la scissione della ex Repubblica Cecoslovacca ke diede inizio nel 1993 a 2 nuove repubblike, qella Ceca e qella Slovacca.

Indubbiamente la voglia di indipendenza e di autodeterminazione è sempre + forte almeno in Europa e qst è x noi Edeniani un indubbio segnale ke i popoli si sentone sempre + prigionieri in nazioni in cui nn si riconoscono e di cui nn vogliono + far parte. Motivo in + x proseguire la ns marcia di autocostruzione della ns patria ke ci renda finalmente liberi e fieri di esserlo.

A seguire l’articolo:

Le Fiandre hanno dichiarato la secessione, il Belgio è nel caos, il sovrano è espatriato. Quando, nell’ultimo scorcio del 2006, la tv pubblica di lingua francese RTBF diede queste notizie in un telegiornale, il Belgio visse una mezz’ora di shock, finché sullo schermo non comparve la scritta “Questa è una fiction”.

Si trattava infatti di un’iniziativa di sapore situazionista, sullo stile di Orson Welles, per testare in tono scherzoso le reazioni a un possibile sviluppo di un contenzioso serissimo, quello che ormai da lungo tempo contrappone la comunità vallona (di lingua francese) a quella fiamminga (di lingua olandese). Ma se soltanto quattro anni fa sembrava trattarsi di fantascienza applicata all’analisi di una complicata situazione politica, ora assomiglia sempre più a uno scenario davvero possibile.

Negli ultimi giorni, per la prima volta, anche autorevoli esponenti della comunità francofona, tradizionalmente ostilissima a ipotesi di secessione, hanno fatto dichiarazioni inedite. Il ministro in carica alla Sanità e agli Affari sociali, Laurette Onkelinx, accreditata come possibile futura leader della principale formazione politica vallone, il Partito socialista, ha confidato in un’intervista che, benché lei si auguri che il paese resti unito, non si possono ignorare le spinte indipendentiste di una porzione importante dei fiamminghi. E anche altri dirigenti politici francofoni hanno fatto coro con parole analoghe.

Dopo lo “scherzo” televisivo del 2006, rivelatosi profetico forse più di quanto pensassero i suoi stessi ideatori, allora travolti dall’indignazione delle autorità di lingua francese, la situazione si è gradualmente incancrenita. Dopo le elezioni del 2007 il Belgio ha dovuto attendere ben otto mesi per confezionare un governo, alchemicamente costruito con il contributo di sette diversi partiti (tre francofoni e quattro fiamminghi). Dopo tanta attesa il risultato si è dimostrato modesto se nel giugno di quest’anno il Paese è tornato anticipatamente alle urne dopo che l’esecutivo era uscito spappolato dall’ennesima discussione in cui alla querelle linguistica si intreccia una lite sugli stanziamenti economici per le tre parti che compongono il Belgio federale: Fiandre, Vallonia e la regione di Bruxelles.

Anche questa volta la formazione di un governo appare impossibile. Il leader del Partito socialista francofono, Elio Di Rupo, ha rimesso l’incarico di formare il governo e il re ha dovuto chiedere aiuto ai presidenti di Camera e Senato (uno francofono, l’altro fiammingo) per provare a riavviare le difficili trattative tra i sette partiti che potrebbero far parte dell’esecutivo. Se anche la figura del sovrano impallidisce a causa della sua incapacità di esercitare un’efficace moral suasion sulle principali forze politiche affinché si costruisca se non un governo solido, quantomeno un esecutivo capace di insediarsi in modo più lesto di quanto accaduto nel 2007, il Belgio patisce l’impasse politica anche sulla scena internazionale, visto che nella seconda parte del 2010 proprio Bruxelles detiene la presidenza a rotazione dell’Unione europea.

Il contenzioso si può sintetizzare in questa maniera: Rispetto alla Vallonia, le Fiandre sono più popolose, più ricche (e più produttrici di ricchezza) e hanno un tasso di disoccupazione più basso. E molti dei suoi abitanti sono stufi di portare sulle spalle il fardello di una Vallonia economicamente più debole e quindi destinataria di fondi provenienti dalla porzione di lingua olandese del Paese. Sebbene, secondo numerosi sondaggi, la maggioranza della popolazione, anche nelle Fiandre, sia contraria a una separazione del paese, gli elettori fiamminghi continuano a votare partiti che hanno un forte anelito a una graduale secessione. Al punto che in pochi anni questa sembra essere, anche per alcuni francofoni fieramente contrari alla divisione del paese, una prospettiva assai più probabile di quanto non sembrasse nel servizio-bufala trasmesso soltanto quattro anni fa dalla tv pubblica della Vallonia.

In ogni caso una divisione del paese non sarebbe affatto così semplice. Perché se è chiaro qual è il confine che separa le Fiandre dalla Vallonia (che, per complicare le cose, ha una zona al suo interno in cui si parla tedesco, terza lingua riconosciuta ufficialmente dalla legge belga) rimane il nodo della regione di Bruxelles. La capitale potrebbe diventare oggetto di una guerra santa, sul modello di Gerusalemme. Bruxelles è geograficamente immersa nelle Fiandre, ma è zona bilingue, con una prevalenza gradualmente sempre più forte del francese. Non bastasse, oltre ai molti immigrati che vivono in città e che parlano quindi arabo o cinese, la massiccia presenza di funzionari Ue ha reso l’inglese un idioma molto diffuso come lingua franca.

C’è chi prospetta soluzioni innovative per questo busillis. Ad esempio sottrarre la regione di Bruxelles a ogni spartizione, rendendola una città-Stato sul modello del District of Columbia statunitense in cui collocare la capitale dell’Unione europea. Si tratterebbe di un’entità amministrativa sconosciuta all’attuale assetto dell’Ue, che andrebbe faticosamente studiata. Ma anche in questo caso le polemiche non si fermerebbero, visto che popolose cittadine dell’hinterland di Bruxelles, attualmente appartenenti alle Fiandre, hanno porzioni molto rilevanti, quando non maggioritarie di cittadini francofoni. Ma i fiamminghi acconsentiranno ben difficilmente a proposte di ingrandimento della regione di Bruxelles ai danni (territoriali) delle Fiandre, così come i francofoni non accetterebbero di lasciare decine di migliaia di belgi che parlano la loro stessa lingua come sparuta minoranza nelle Fiandre indipendenti.

Nonostante la divisione del paese cominci a essere una prospettiva palpabile, molti credono che si tratti di una strada impercorribile. Ad esempio Le Monde ha ricordato che il trattato di Lisbona contempla la fuoriuscita di uno Stato dall’Ue ma non una scissione. E quindi – scrive il quotidiano francese – “i ‘due nuovi paesi’ belgi dovrebbero rimandare la loro adesione, negoziare i 35 capitoli molto complessi, ottenere l’avallo dei 26 Stati attualmente membri e ridiscutere il loro reingresso nella moneta unica”. Così, secondo alcuni analisti, l’accelerazione dei politici francofoni che, pur avversandola, cominciano a parlare liberamente di una possibile divisione del paese sarebbe soltanto un modo per mettere spalle al muro i fiamminghi, costretti ad adattare i proclami secessionisti alla complessità della loro realizzazione. E in effetti Bart de Wever, il leader del NVA, il principale partito delle Fiandre, uscito vincitore di stretta misura sui socialisti francofoni (27 seggi a 26) ha dichiarato che “drammatizzare la situazione non aiuta; i politici devono mostrare il loro senso di responsabilità”.





Un saggio sull’Autodeterminazione

6 08 2010

Tratto da Cooperazione SVILUPPO.org un approfondito saggio sul tema dell’autodeterminazione dei popoli, argomento ke ci tocca da vicino nella ns strada x la realizzazione della libera Repubblica dell’Isola di Eden:

Autodeterminazione: da principio giuridico a diritto dei popoli?

Fino alla prima guerra mondiale, il principio di autodeterminazione ha avuto esclusivamente portata politica, dal momento che non gravava sugli Stati alcun obbligo relativamente al riconoscimento del diritto all’autodeterminazione.

Le prime enunciazioni vengono ascritte alla rivoluzione americana, con la Dichiarazione di indipendenza del 7 giugno 1776, e alla rivoluzione francese con la Dichiarazione del diritto delle genti, sottoposta all’Abate Grégoire alla Convenzione del 1795 e poi non adottata dell’Assemblea.

Il principio intende sancire la liberazione dei popoli da ogni oppressione esterna ed interna anche se poi, nella sua applicazione pratica, nel corso dell’800 si è manifestato solo nel principio di nazionalità, svolgendo un ruolo rilevante nella formazione degli Stati europei (Italia e Germania in particolare).

Nei trattati di pace conclusivi della prima guerra mondiale, anche se nel senso limitato di principio di nazionalità, il principio di autodeterminazione assume portata giuridica divenendo oggetto di norme internazionali pattizie.

Il principio non assunse alcun rilievo nell’ambito del Patto della Società delle Nazioni per timore che potesse costituire la base giuridica per la legittimazione di eventuali pretese secessionistiche.

Si realizzò nello smantellamento di alcuni Stati plurinazionali (l’Impero austro-ungarico e quello ottomano) mentre per i popoli coloniali si istituì il sistema dei mandati.

Con la seconda guerra mondiale, a seguito dei tragici eventi verificatisi prima, durante e dopo il conflitto, il principio è consacrato in una convenzione internazionale universale, la Carta delle Nazioni Unite. Esso è contenuto nell’articolo 1, paragrafo 2 e nell’articolo 55. Tra gli scopi dell’Organizzazione si enuncia quello di sviluppare tra le nazioni relazioni amichevoli fondate sul rispetto del principio dell’eguaglianza dei diritti dei popoli e del loro diritto all’autodeterminazione. Inoltre, attraverso lo sviluppo della cooperazione internazionale in campo economico e sociale (art. 56), le Nazioni Unite si propongono di creare le condizioni di stabilità e di benessere che sono necessarie per ottenere relazioni pacifiche ed amichevoli tra le nazioni, basate sul rispetto del principio dell’eguaglianza dei diritti e all’autodecisione dei popoli.

Dall’esame degli articoli emerge innanzitutto che non si tratta di un obbligo da ottemperare nell’immediato ma di una blanda e generica previsione di un programma d’azione.

Emerge inoltre che l’autodeterminazione non è un fine in sé perseguito dall’ONU ma è funzionale al perseguimento del fine ultimo dell’organizzazione: la pace internazionale. Se l’applicazione di tale principio provoca tensioni e conflitti tra Stati, ad esso si deve rinunciare.

Infine, dalla Carta di evince che il termine autodeterminazione è inteso nel senso di autogoverno e non di indipendenza. L’indipendenza è riservata ai territori sottoposti ad amministrazioni fiduciarie, già sottoposti al dominio delle potenze sconfitte (art. 76, lett. b); ai territori non autonomi sottoposti al dominio delle potenze vincitrici viene concesso l’autogoverno (art. 73 lett. b).

L’autodeterminazione, dunque, era intesa in senso negativo: come obbligo gravante su tutti gli Stati di non interferire, con minacce o azioni coercitive o pressioni, sulle libere scelte operate nell’ambito di Stati stranieri.

In questo modo il principio coincideva con quello di non ingerenza negli affari interni di altri Stati.

Alla fine degli anni 50, l’autodeterminazione iniziò ad essere intesa in senso positivo, come obbligo gravante su un governo che occupa un territorio non suo di lasciare che il popolo possa determinare il proprio destino.

Più recentemente l’autodeterminazione si è affermata, secondo parte della dottrina, come diritto dei popoli. Nei Patti delle Nazioni Unite sui diritti umani del 1966 si afferma, all’articolo 1, che

tutti i popoli hanno il diritto di autodeterminazione e che, in virtù di questo diritto, essi decidono liberamente del loro statuto politico e perseguono liberamente il loro sviluppo economico, sociale e culturale.

Per raggiungere i loro fini, inoltre, tutti i popoli possono disporre liberamente delle proprie ricchezze e delle proprie risorse naturali senza pregiudizio degli obblighi derivanti dalla cooperazione economica internazionale, fondata sul principio del mutuo interesse, e dal diritto internazionale. In nessun caso un popolo può essere privato dei propri mezzi di sussistenza.

Gli Stati parti del presente Patto, ivi compresi quelli che sono responsabili dell’amministrazione di territori non autonomi e di territori in amministrazione fiduciaria, debbono promuovere 1′ attuazione del diritto di autodeterminazione dei popoli e rispettare tale diritto, in conformità alle disposizioni dello Statuto delle Nazioni Unite”.

Ciononostante, secondo la dottrina maggioritaria, l’obbligo di rispettare il principio di autodeterminazione incombe sugli Stati ed i popoli non sarebbero titolari di alcun diritto ma possono essere considerati solo i concreti beneficiari delle disposizioni internazionali esistenti in materia. Tuttavia, ciò non significa che in caso di violazione dell’obbligo in tema di autodeterminazione, essi restino privi di tutela.

In caso di violazione, ciascuno Stato della comunità internazionale, operante per conto della stessa comunità, è potenzialmente legittimato ad agire al fine di tutelare tali interessi. Di conseguenza, la dottrina maggioritaria ritiene che i popoli, pur non essendo titolari del diritto, non resterebbero privi di tutela perché l’interesse della volontà popolare sarebbe esigibile dalla stessa comunità internazionale.

Beneficiari

I beneficiari del principio di autodeterminazione sono i popoli nel loro complesso e non i Movimenti di liberazione nazionale (MLN). Al fine del godimento della protezione accordata dall’ordinamento internazionale, infatti, è irrilevante che il popolo che esercita il proprio diritto all’autodeterminazione sia o meno organizzato in un MLN. Una simile ricostruzione potrebbe lasciare intendere che solo i MLN dotati di una certa organizzazione di governo e in grado di esercitare un effettivo controllo sul territorio possono legittimamente rivendicare l’autodeterminazione del popolo che rappresentano.

Ciò che qualifica il popolo a livello internazionale non è il controllo effettivo di una parte del territorio ma il fine qualificato da essi perseguito, ovvero la liberazione dalla dominazione coloniale, razzista o dall’occupazione straniera.

Portata e contenuto del principio di autodeterminazione

La questione di quale sia il contenuto del principio di autodeterminazione in quanto principio giuridico è particolarmente incerta in quanto si tratta di desumerlo da fonti giuridiche diverse, da una prassi fortemente condizionata da influenze politiche e dai collegamenti con altri aspetti del diritto internazionale, quali quello della soggettività internazionale.

In linea con la dottrina maggioritaria (tra gli altri Conforti, Shaw, Higgins e Frank), bisogna riconoscere che il principio di autodeterminazione ha ancora oggi un campo di applicazione ristretto essendo inteso come autodeterminazione esterna.

In questo senso si applica ai popoli sottoposti a un governo straniero ossia:

  • popoli soggetti a dominazione coloniale
  • popoli soggetti ad un regime razzista (Rodesia del Sud anni 60, Sudafrica)
  • popoli di territori conquistati ed occupati con la forza (come i territori arabi occupati da Israele dopo il 1967 – Conforti).

Fino agli anni 60 l’applicazione del principio ha riguardato i popoli soggetti a dominazione coloniale. A partire dalla metà degli anni 60 il principio ha cominciato ad applicarsi anche alle altre due categorie.

Comporta il diritto dei popoli sottoposti a dominazione straniera di divenire indipendenti, di associarsi od integrarsi con altro Stato o comunque di scegliere liberamente il proprio regime politico.

È inoltre un principio irretroattivo: la dominazione straniera non deve risalire oltre l’epoca in cui il principio stesso si è affermato come principio giuridico (ovvero dopo la seconda guerra mondiale). Non si applica dunque ai territori che furono oggetto di occupazioni o annessioni in seguito alla prima guerra mondiale, come Estonia, Lettonia, Lituania che furono occupate ed annesse dall’URSS nel 1940. non si può parlare di autodeterminazione per cui la loro indipendenza costituisce un esempio di formazione di nuovi Stati per distacco.

Quanto alla dominazione coloniale occorre fare delle precisazioni. All’epoca della formazione della Carta ONU il principio era inteso in senso negativo come obbligo di non ingerenza negli affari di altri Stati. Nell’ambito delle Nazioni Unite, si è formata una regola che attribuisce all’Assemblea Generale la competenza a decidere con effetti vincolanti per tutti circa la sorte dei territori coloniali, conformandosi al principio di autodeterminazione altrimenti la decisione è illegittima. L’Assemblea può anche decidere anche senza consultare gli abitanti del territorio purché se ne rispetti la volontà (Parere 1975, Sahara occidentale).

Una parte minoritaria della dottrina, tra cui la dottoressa Lattanzi, vede il contenuto del principio riferito non solo all’autodeterminazione esterna ma anche all’autodeterminazione interna.

Questa valorizza la distinzione tra governo e governati, sancisce il dovere di ogni Stato di godere del consenso della maggioranza dei sudditi e di garantire al popolo non solo la possibilità di esprimersi liberamente circa la propria struttura politica ma anche di modificarla qualora esso non si riconoscesse più nel regime vigente, in modo da assicurare la corrispondenza tra volontà popolare e governativa.

La maggior parte della dottrina esclude che il Governo debba godere del consenso della maggioranza dei sudditi e debba essere da costoro liberamente scelto o debba avallare le aspirazioni secessionistiche di regioni più o meno autonome o etnicamente distinte dal resto del Paese.

Non bisogna confondere il principio di autodeterminazione con le norme sui diritti umani che impongono al governo di rispettare la dignità dei suoi cittadini o prevedono espressamente, ad esempio, il diritto dei singoli a partecipare a libere elezioni (art, 3 Convenzione europea dei diritti dell’uomo, art. 23 Patto internazionale sui diritti civili e politici).

Modalità di esercizio

Le modalità di esercizio del principio di autodeterminazione enucleate dalla prassi delle Nazioni Unite sono state influenzate dalla duplice preoccupazione di elaborare strumenti giuridici volti, da un lato, a favorire l’accesso all’indipendenza dei popoli coloniali e, dall’altro, a limitare l’applicazione del principio di autodeterminazione.

L’esercizio dell’autodeterminazione si fonda su quattro obblighi fondamentali:

  1. Obbligo di consultare il popolo colonizzato sottoposto a dominazione straniera.
  2. l’autodeterminazione deve realizzarsi nel quadro delle frontiere coloniali stabilite, conformemente al principio dell’uti possidetis juris
  3. è lecita la lotta condotta dal popolo oppresso mediante l’uso della forza, come ultima ratio. La Risoluzione dell’Assemblea Generale n. 3314 del 1974 relativa alla definizione dell’aggressione non esclude che i popoli sottoposti a regimi coloniali, razzisti o ad altre forme di dominio straniero possano lottare ai fini della loro autodeterminazione libertà e indipendenza.
  4. è lecita la lotta condotta dal popolo oppresso mediante l’uso della forza organizzato in un MLN. Questi ultimi non possono considerarsi titolari del diritto all’uso della forza, ma non possono essere ritenuti responsabili per violazioni del diritto internazionale se utilizzano la forza armata per reagire alla negazione, con la forza, del diritto all’autodeterminazione. In una simile eventualità il conflitto diventa internazionale, ad esso si applica il primo protocollo addizionale alle Convenzioni di Ginevra del 1949, che consente l’intervento di terzi, che tuttavia non possono usare la forza contro lo Stato che soffoca l’autodeterminazione ma possono solo fornire assistenza.

Il problema però riguarda le forme di questa assistenza: aiuto politico, economico, umanitario o militare. E In caso di assistenza militare, semplice fornitura di armi o invio di truppe a sostegno del popolo oppresso?

Come sancito dalla Dichiarazione sulle relazioni amichevoli del 1970 e della Dichiarazione sulla definizione di aggressione del 1974 e ribadito dalla Corte Internazionale di Giustizia nella pronuncia del 27 giugno 1986 relativa alle attività militari e paramilitari in e contro il Nicaragua, l’assistenza è legittima. La lotta per l’autodeterminazione non può infatti essere disciplinata alla stessa stregua delle guerre civili. Il divieto di assistenza ai movimenti insurrezionali non trova applicazione nel caso di conflitti connessi con la dominazione coloniale, razzista o straniera.

Le divergenze riguardano la natura dell’aiuto che gli Stati sono legittimati a dare, in particolare l’intervento armato (sia diretto che indiretto).

Inizialmente, gli Stati afroasiatici, socialisti e dell’America Latina sostenevano la liceità di aiuti non solo di carattere umanitario, politico e finanziario ma anche militare. Tale opinione è stata sempre contestata dagli Stati occidentali. Per questo motivo le uniche risoluzioni adottate per consensus sono state quelle che hanno affermato genericamente che l’aiuto deve essere conforme ai fini perseguiti dalle Nazioni Unite senza specificarne la natura o il tipo.

Con il tempo, la maggior parte degli Stati ha accettano la legittimità dell’intervento armato indiretto. A partire dagli anni Settanta, il Consiglio di Sicurezza ha infatti appoggiato nelle risoluzioni il sostegno militare indiretto.

L’intervento armato indiretto non costituisce oggetto di nessuna norma consuetudinaria. La clausola di salvaguardia inserita nell’articolo 7 della Dichiarazione sulla definizione di aggressione del 1974 sancisce che gli articoli che proibiscono l’aggressione non pregiudicano il diritto all’autodeterminazione dei popoli che ne sono privati con la forza. Gli Stati che sostengono militarmente un popolo oppresso, quindi, non commettono aggressione e dunque un illecito internazionale. In passato il Consiglio di Sicurezza ha condannato i governi oppressori ma non si è mai pronunciato contro il sostegno prestato dai Front-line States ai MLN, riconoscendo implicitamente che l’aiuto diretto ai popoli in lotto non costituisce un illecito uso della forza armata.

Fonti: Arangio Ruiz G. Autodeterminazione (diritto dei popoli alla) in Enciclopedia Giuridica, Roma, 1988

Carbone – Luzzato – Santa Maria, Istituzioni di diritto Internazionale, Torino – Giappichelli, 2006

Conforti, Diritto internazionale, Napoli – Editoriale Scientifica, 1996.

Treves, Diritto internazionale, Giuffrè Editore, 2005